GIARDINETTO: PUNTO E... A CAPO

Con la conclusione dell’ultima udienza tenutasi il 22 Gennaio 2015 presso il tribunale di Lucera è calato il sipario anche sul secondo processo giardinetto, iniziato nel febbraio 2010 e conclusosi a distanza di cinque anni con un esito che da molti, soprattutto alla luce della requisitoria fatta del Pubblico Ministero, era ritenuto scontato.

Nel corso dell’udienza, dopo aver ascoltato le arringhe della difesa e delle parti civili, è arrivata la lettura del dispositivo della sentenza da parte del presidente del collegio giudicante Giancarlo Pecoriello, con cui è stata dichiarata l’estinzione del reato di disastro ambientale per intervenuta prescrizione e l assoluzione nei confronti di Vito Balice e Vincenzo Piccirillo, perchè il fatto non sussiste.

 

In merito ad alcune accuse mosse nei confronti di questi ultimi, relative al falso ideologico e la messa in sicurezza del sito rispetto alla presenza di amianto, dall'esame degli atti il reato ipotizzato è risultato diverso da quello contestato. Per tali motivi è stata disposta la trasmissione di copia degli atti al Pubblico Ministero affinché si proceda ad una riformulazione del capo di imputazione.

La sentenza ha disposto, inoltre, il dissequestro e la restituzione del sito inquinato alla IAO s.r.l., affinché la stessa provveda alla bonifica integrale del sito secondo i termini di legge.

Alla luce della sentenza appare evidente come il minimo comune denominatore che lega questo processo, con quello che lo ha preceduto, conclusosi nel 2007, sia rappresentato dall’intervento della prescrizione e dalla conseguente sensazione che in tutti questi anni la macchina giudiziaria non sia stata in grado di garantire fino in fondo la tutela dei cittadini che da questa vicenda sono stati feriti.

Anche se è vero che prescrizione non vuol dire assoluzione e che ancora non si conoscono le motivazioni della sentenza, ciò che appare evidente agli occhi di tutti è la profonda discordanza tra la realtà delle cose, espressa dalla presenza di una discarica di rifiuti tossici e dal pericolo che questa rappresenta, e la realtà giudiziaria che, dopo due processi,sedici anni ed il dispendio di innumerevoli risorse, sembra non essere in grado di soddisfare una sacrosanta esigenza di giustizia e di verità di una intera comunità e di garantire alla stessa il diritto alla salute ed alla verità.

Così come è successo con molti altri casi relativi a reati ambientali che hanno avuto un maggiore impatto ed una maggiore rilevanza a livello nazionale, si pensi ad esempio al caso eternit, sembra che il diritto e la giustizia tendano a correre su binari diversi portando molto spesso ad un forte senso di impotenza e di frustrazione nei confronti di certi verdetti in cui la prescrizione sembra cancellare con un colpo di spugna reati che, al pari di un qualsiasi bene di consumo, vengono considerati suscettibili di una “scadenza”.

Viene allora da chiedersi ma allora questo sistema chi tutela davvero? La dea della giustizia ha le mani legate?

Sembra quasi che il nostro sistema da un lato sia intento a perseguire coloro che commettono dei gravi reati e dall’altro garantisce una via d’uscita a coloro tra questi che, avendo a disposizione ingenti disponibilità economiche, possono sfruttare la lungaggine giudiziaria per procurarsi una sostanziale impunità rispetto ai reati commessi.

Pare che questo problema non sia solo dei nostri tempi dato che già Cicerone sosteneva: “Summum ius, summa iniuria” (“Somma giustizia, somma ingiustizia”), volendo sostenere con questo che una applicazione acritica del diritto, che non tiene conto delle circostanze a cui le sue norme devono essere applicate nel singolo caso e delle finalità a cui esse dovrebbero tendere, può facilmente portare a commettere ingiustizie.

Se a questo si aggiunge che, oltre alle problematiche relative alla disciplina sulla prescrizione, anche la giurisdizione relativa ai reati ambientali risulta essere carente, ci si rende conto di come, da questo punto di vista, sia davvero difficoltoso garantire il rispetto del principio di legalità nel nostro Paese.

Tutti questi aspetti ci interrogano ancora una volta e ci spingono a chiederci se davvero bisogna avere ancora fiducia nella giustizia e sugli strumenti che essa ha a disposizione.

Si tratta di domande a cui è difficile dare risposte esaustive, sia per la complessità delle circostanze, sia per il fatto che questo sistema, così come ci ricorda la massima di Cicerone, è fatto da uomini e come tale suscettibile di errore.

Tuttavia, alla luce delle esperienze fatte, si acquisisce la consapevolezza che la verità e la giustizia non vanno ricercate esclusivamente all’interno di una sentenza, ma ricercate in primis in noi stessi nei nostri comportamenti individuali e nella spinta a determinare cambiamenti a livello collettivo.

In estrema sintesi è all’impegno di noi tutti che bisogna fare appello in questo momento, cercando di mobilitare tutte le persone di buona volontà che da questa esperienza, seppur per certi versi traumatica, vogliono ripartire per costruire un nuovo modello di cittadinanza che abbia al suo interno gli anticorpi per evitare che nel futuro quello che è accaduto alla nostra comunità si ripeta.

Questo processo non può che fare leva sulle nostre coscienze, consapevoli del fatto che almeno queste non sono soggette alla prescrizione.